Inter-vista: “visione attraverso”
Gli incontri con scrittrici e scrittori che si dipanano nel racconto di Un filo di voci, edito da Castelvecchi, sono avvenuti quasi esclusivamente nella forma di interviste televisive, una forma di dialogo per il pubblico cui mi ero appassionato in tredici anni di lavoro di giornalismo sportivo per la Rai. Soltanto prima di chiudere il libro, dopo averne fatto esperienza per molti anni, mi sono soffermato a scandagliare più a fondo l’etimologia e il senso di questo termine e a ricavarne una riflessione che fa parte di una delle ultime pagine del libro. Avrebbe potuto far parte di un capitolo introduttivo (in qualcuna delle versioni del manoscritto era così), ma poi ho preferito spostarlo verso la fine, perché il lettore potesse, a sua volta, acquisirne esperienza attraverso il percorso personale di lettura. Sulla base però dei principi che ispirano i trailer dei film in uscita, e considerato che non si tratta di un thriller, mi piace anticipare ai futuri lettori un brano dedicato alla definizione di un termine molto usato e di una forma essenziale della programmazione televisiva, ma conosciuta solo in minima parte (e con regole non scritte che sarebbe bello veder seguire più spesso).
Incontro con David Grossman (settembre 2000) con l’intervistatore ripreso “di quinta”
«“Inter-vista” significa ‘visione attraverso’, come un “tra” che indica una non-separazione, lo stesso che dà vita alle parole “inter-locuzione”, “inter-connessione”, “inter-prete”. L’etimologia è affine a quella di “dia-logo”, “discorso-attraverso”. Scopo dell’intervista è far scaturire il pensiero da un dialogo, che prevede però due posizioni ben distinte degli interlocutori. Quello dell’intervistatore è un ruolo dall’equilibrio sottile tra la ricerca della chiarezza e della semplicità di un divulgatore, l’ascolto attento e non giudicante di uno psicanalista e le qualità di un mediatore culturale per mettere in relazione il sapere dell’autore e le curiosità del pubblico. Se lo scrittore si trova di fronte non tanto il “critico letterario”, ma il lettore attento e curioso, si rispettano i ruoli e prende vita un vero dialogo tra persone. La comunicazione diventa fertile se è autentica e profonda e se è generata, in entrambi, da apertura, curiosità, interesse sincero e rispetto dell’altro. Solo così possono emergere domande non banali, non insolenti né invasive, che diventano esplorazione, stimolo per scoprire qualcosa capace di coinvolgere chi dialoga e, di conseguenza, il pubblico. Le domande possono cambiare così fino all’ultimo momento, perché nel dialogo che si stabilisce tra Scrittore e Lettore (quello che Italo Calvino ha mirabilmente immaginato in Se una notte d’inverno un viaggiatore) il filo narrativo si dipana quasi da sé e gli argomenti possono emergere in modo inatteso. Quando poi si usa il mezzo televisivo è essenziale che l’intervistatore non si metta al centro (nelle inquadrature ho considerato sempre preferibile la “quinta”, come per confondermi con il pubblico invisibile e insieme rappresentarlo) e faccia quasi dimenticare al protagonista la presenza delle telecamere.»
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