Amos Oz, l’orologiaio delle parole
Suo padre era bibliotecario e sarebbe stato molto più volentieri scrittore anche lui, come invece era lo zio, un’autorità nella letteratura ebraica. Il contrasto con il padre, vicino alla destra ebraica, portò Amos, a 15 anni, a lasciare casa sua, entrare in un kibbutz e cambiare il cognome originario Klausner in Oz, che in ebraico significa “forza”. Docente di letteratura, per molti anni è stato vicino al leader laburista Shimon Peres, che l’aveva proposto, senza successo, come un possibile successore alla guida del partito.
Incontro Amos Oz a Pordenone, cittadina in cui ogni anno a marzo si dedicano quindici giorni di iniziative, tra incontri, spettacoli, letture pubbliche, a uno scrittore “universale”, capace di parlare a tutti. (“Dedica” è il nome della manifestazione.)
La biblioteca di Pordenone come set
Mostra di apprezzare la scelta della Biblioteca comunale come set, lo dimostra il sorriso con cui entra.
“Il mio mondo – racconta, aggiungendo altri particolari – era pieno di libri in 16 o 17 lingue perché mio padre era un grande poliglotta. I libri erano il mio universo. Questi erano i paesaggi, le montagne, i laghi, i fiumi, tutto era fatto di libri. Non mi era permesso giocare molto all’aperto, era troppo pericoloso, perciò giocavo con i libri che non potevo leggere, li toccavo, li tenevo tra le mani, li annusavo. La biblioteca è stata il mio primo universo.” Da piccolo, non osando immaginare di diventare, da grande, uno scrittore, sognava di diventare un libro: “Volevo essere un libro piccolo, in modo da potermi nascondere dietro ai grandi libri.”
Ha una simpatia che gli piace esporre, un buon senso dello humour, nel parlare mostra lo stesso gusto della parola che manifesta nella scrittura.
Preciso, rapido, capace di inquadrare un problema nel numero essenziale di parole giuste, sembra impersonare, quasi mimandolo coi gesti, quell’orologiaio vecchio stile a cui ama paragonare lo scrittore.
“Lavoro come un orologiaio di vecchio stampo, con una lente di ingrandimento sull’occhio e un paio di pinzette in mano, prendo una parola, la controllo in controluce e mi chiedo: ‘E’ la parola giusta? E’ la parola giusta?’. La giro prima da un lato e poi dall’altro, poi la metto al suo posto e spesso la prendo, la sposto e la sostituisco con un’altra parola perché so quanto possano essere pericolose e complesse.”
La complessità delle parole
“Molto spesso quello che vogliamo dire non è quello che in realtà diciamo e quello che diciamo non corrisponde a quello che volevamo dire. E’ per questo che le parole possono comunicare cose che in realtà non intendevamo dire, provocando così dolore, offesa o ridicolo. Io lavoro con le parole con estrema cautela, come se fossero materiale radioattivo. Il mio vero lavoro come scrittore non ha a che fare con le idee, con i concetti, non si occupa principalmente di elaborare una trama; è piuttosto il lavoro di prendere le parole una a una e metterle una accanto all’altra, parola dopo parola dopo parola.”
La sua narrativa si colloca in uno spazio tra la vocazione di comprendere gli esseri umani e la coscienza dell’estrema impossibilità di intendersi che, riferendosi alla famiglia di origine, definisce come “mille anni di oscurità”.
“La storia della mia famiglia è soprattutto la storia del popolo ebraico in Europa. È una storia di persecuzione, discriminazione, alienazione e infine di massacro su scala impressionante. Come essere umano, guardo questa storia così oscura da cui proviene la mia famiglia e mi chiedo: cosa avrebbe potuto evitare il corso di questa storia? Come sarebbe potuta essere una storia diversa? Così mi dico: solo attraverso la curiosità dell’altro, l’apertura verso le altre persone e la capacità di accettare l’altro come altro. Credo profondamente che la curiosità sia un valore morale, un imperativo etico: sii curioso degli altri; se sarai curioso sarai suscettibile al fanatismo, meno incline a diventare un fanatico. Trovo in me stesso, come risultato della storia di tenebre della mia famiglia, una grande curiosità umana. E la curiosità è la mia vita, un raggio di luce nell’oscurità.”
Nel 2007, quando lo incontrai, era appena uscita in Italia la sua autobiografia, Storia d’amore e di tenebra. Un romanzo toccante, dove, a oltre cinquant’anni, si misurò per la prima volta con il suicidio della madre, quando ne aveva dodici. Mi incuriosiva sapere quanto accade nella persona, prima ancora che nello scrittore, una volta che si siano ricostruiti, rimessi in ordine, come i tasselli di un puzzle, gli eventi di una vita.
“Dopo aver scritto Una storia d’amore e di tenebra sono diventato un uomo molto più pacifico. Ho fatto pace con i morti: con mio padre morto, mia madre morta, i miei nonni, con un passato morto. Ho fatto pace con il passato, non sono più arrabbiato con il passato. Ho ancora molta rabbia in me, ma è rabbia nei confronti del futuro e non più nei confronti del passato. Credo che la rabbia verso il passato sia un veleno.“
Dalla pace con se stessi alla pace coi popoli
Lei parla del fare pace dentro se stessi e scrive sempre di famiglie, di relazioni, di microcosmi. Ma come si passa poi all’altro livello, a quello della pace tra i popoli?
“Se mi chiede di dirle in una sola parola qual è il tema di tutto il mio lavoro letterario, le direi ‘famiglie’. Se mi dà due parole, le direi ‘famiglie infelici’, se mi dà tre parole… le direi di leggere i miei libri. Credo che la famiglia sia l’istituzione più affascinante di tutto l’universo, e la più misteriosa, la più paradossale, la più comica e tragica. Ritengo che tutto abbia inizio all’interno della famiglia: il fanatismo nasce all’interno della famiglia, il conflitto nasce all’interno della famiglia e anche la pace nasce all’interno della famiglia. Se non riusciamo a condurre una vita familiare pacifica, avremo pochissime possibilità di riuscire a vivere in pace con i nostri vicini e sicuramente non sapremo come fare pace con i nostri nemici. Tutto nasce, secondo me, all’interno della famiglia.”
Così come ama annusare i libri, Oz racconta di un’altra sua passione legata al mondo sensoriale: da bambino assaporava le pietre, che per lui hanno lo stesso effetto delle madeleine di Proust.
“Gerusalemme, da cui provengo, è una città di pietre e sogni. Delle pietre molto grandi e compatte e dei sogni estremamente folli, fanatici e malsani. Molto spesso toccare una pietra, annusarla mi aiuta a riportare nella mia mente i sogni di Gerusalemme, i vari sogni, alcuni dei quali purtroppo mi spaventano, mentre altri sono meravigliosi. Ma nella mia mente c’è sempre un legame tra la pietra e i sogni. E i sogni di Gerusalemme durano più a lungo delle pietre.”
Come mai ha deciso di venir via dalla sua Gerusalemme per andare a vivere ai confini del deserto?
“Quando avevo intorno ai 15 anni, mi sono ribellato contro il mondo di mio padre, contro Gerusalemme, mi sono ribellato contro l’atmosfera fortemente soffocante di questa città e della mia famiglia. Mio padre era di destra e io ho deciso di essere di sinistra; mio padre era un intellettuale e io avevo deciso di guidare il trattore; mio padre era basso e io avevo deciso che sarei diventato molto alto, non ha funzionato, ma avevo deciso così. Quindi mi sono ribellato contro Gerusalemme, anche oggi vado molto spesso in visita a Gerusalemme e gran parte dei miei libri sono ambientati lì, ma non posso vivere a Gerusalemme, l’aria è troppo soffocante per me.”
Lei scrive che la forza di gravità di Gerusalemme era più forte alcuni anni fa di adesso. Cosa vuol dire?
“In quei giorni a Gerusalemme le persone camminavano con grande attenzione. Se poggi un piede per terra, non lo sposti molto facilmente perché potrebbe esserci qualcuno a prendere il tuo posto; se alzi un piede, non lo riappoggi molto facilmente perché non sai cosa c’è sotto, non sai se c’è una mina, un serpente, una bomba o altro. Quindi le persone camminano in punta di piedi, come se fossero arrivate in ritardo a un concerto.”
Israele da fuori e da dentro
A colloquio con uno scrittore israeliano si arriva inevitabilmente ad affrontare i temi del conflitto, che a volte entrano nei romanzi attraverso semplici osservazioni dei personaggi. Al protagonista di Non dire notte Oz fa dire, ad esempio, che “il conflitto in Israele visto da lontano è tutta un’altra cosa”. Una visione che corrisponde alla sua.
“La realtà vista dall’esterno appare molto spesso come la realtà proposta dalla CNN: solo i palestinesi, il terrore, gli insediamenti, i confini e i luoghi sacri. In realtà Israele è un luogo vivo, ha un classe media molto forte, una vita estremamente edonistica, molto rumorosa, passionale, polemica, piena di passione e desiderio e questo è l’Israele che non è mai in prima pagina, non si è neanche coscienti dell’esistenza di questo Israele finché non si viene in Israele. È una terra di polemiche, le persone discutono in mezzo alla strada con grande passione. Il vero Israele è molto simile a un film di Fellini: le persone parlano sempre in modo appassionato. Ma la visione televisiva di Israele che vedo quando viaggio all’estero non corrisponde alla realtà che viviamo.”
Pochi sanno forse che per scelta del primo leader dello Stato di Israele, Ben Gurion, le prime trasmissioni televisive iniziarono nel Paese molto più tardi che nelle altre parti del mondo, nel 1968. “Ben Gurion – ricorda al proposito Amos Oz, – diceva che la televisione era un male per Israele perché avrebbe rovinato le persone. Forse aveva ragione.” Come David Grossman, anche Amos Oz pubblica di tanto in tanto interventi sulla situazione politica.
L’asilo globale
“L’aspetto probabilmente peggiore della globalizzazione è questa regressione infantile del genere umano, l’asilo globale, ridondante di ninnoli e balocchi, dolcetti e lecca- lecca.”
Contro il fanatismo, Feltrinelli, 2004
“Credo che viviamo in un asilo globale perché c’è un sistema di lavaggio del cervello che ci rende infantili e immaturi. Pensiamo che se compriamo ancora un altro oggetto possiamo diventare felici; siamo circondati da giocattoli e oggetti e siamo invitati a passare tutta la nostra vita a giocare con i giocattoli. Questa è un’infantilizzazione dell’essere umano, un’infantilizzazione sistematica dell’intera umanità. Ho visto qualche tempo fa dei graffiti in Israele che dicevano: ‘siamo nati per comprare’. Ma non tutti noi. Alcuni sono nati per vendere e sono loro i responsabili dell’infantilizzazione dell’umanità. “
Quando era bambino incontrò una bambina araba e ancor oggi rimpiange di aver commesso un errore.
“Avevo forse 9 o 10 anni, ero un piccolo fanatico, vittima di un lavaggio del cervello nazionalista, e quando ho incontrato questa ragazzina araba, l’ho trattata come una rappresentante del mondo arabo, mentre io mi consideravo un rappresentante del popolo ebraico. Le ho parlato come un rappresentante parla a un altro rappresentante. Dopo molti anni mi sono dispiaciuto perché non mi ero rivolto a lei come un ragazzo si rivolge a una ragazza.”
Gli scrittori israeliani, in modo particolare, parlano spesso del bisogno di mettersi nei panni degli altri. Perché secondo lei?
“Viviamo in una serie di conflitti. C’è un conflitto di maggiore entità, quello tra israeliani e palestinesi, e per poterlo risolvere è necessario immaginare l’altro, mettersi nei panni dell’altro non per essere d’accordo con lui, ma solo per immaginare il modo di pensare dell’altro. Ci sono poi conflitti interiori infiniti, contraddizioni nella società israeliana. Ricordiamo che Israele è una terra di immigrati. Ogni ebreo in Israele proveniva da un paese diverso, da un background diverso, da una diversa relazione di amore e odio con il vecchio paese. Per coesistere, l’immaginazione dell’altro è un bene cruciale, senza la quale è impossibile vivere e perfino uscire a comprare il giornale in edicola.”
Lei dice che l’amore non è il contrario della guerra. Qual è allora il contrario della guerra e come si può arrivare alla pace?
“C’è un’idea molto sentimentalista e principalmente europea che confonde l’amore, la compassione, la pace, il perdono, la comprensione, come se tutte queste parole avessero lo stesso significato. Nel mio vocabolario il contrario della guerra è la pace, non l’amore. Per questo non ho mai creduto agli slogan sentimentalisti: “fate l’amore, non fate la guerra”. per quanto riguarda i palestinesi il mio slogan è sempre stato:”fate la pace, non fate l’amore”. Non credo che sia necessario che i Paesi si amino, è sufficiente smettere di uccidere e morire, non credo che possa esserci un amore improvviso tra israeliani e palestinesi, c’è troppa rabbia, troppe ferite, troppo dolore, troppa ingiustizia da entrambe le parti. Ora non abbiamo bisogno di amore ma di pace e la pace è un accordo pratico, un contratto tra due parti in cui entrambe possono ottenere solo in parte quello che vogliono. Se accettiamo questa condizione non si potrà arrivare all’amore, ma alla pace sì.“
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