Luis Sepulveda (2003): “Andare da nessun posto a nessun posto”
Quest’incontro con Luis Sepulveda è avvenuto a giugno del 2003, a Grinzane. Lo scrittore cileno faceva parte della giuria del Premio Grinzane Cavour e in un intervallo dei lavori ci fu la possibilità di realizzare un’intervista per il settimanale Incontri di Rainews 24, ora parte dell’archivio delle Teche Rai. Era in libreria da pochi mesi Raccontare, resistere. Conversazioni con Bruno Arpaia, pubblicato da Guanda con la traduzione di Ilide Carmignani. Questo è il filmato, accompagnato dal testo integrale dell’intervista.
Sei cileno. Che cosa vuol dire oggi?
Il concetto di nazionalità è sempre molto pericoloso perché è una grande limitazione. Preferisco parlare di una sorte di cittadinanza nel mio caso è una cittadinanza mondiale, universale. Non dimentico la frase di mio nonno per cui uno è del posto dove si sente. Questo parla di un rapporto con la gente. Oggi abito in Spagna, mi sento profondamente del Paese che abito, che sono le Asturie. E questo è un fatto di legittima appartenenza che non ha niente alcuna relazione con questa idea quasi oscena della nazionalità.
Invece la lingua incide sull’appartenere a un posto?
Sì, la lingua è sinonimo di un’appartenenza culturale. Ho sempre detto che quando si parla di patria, ad esempio, per me l’unica patria possibile è la patria della mia lingua, lingua che accomuna quasi cinquecento milioni di persone in Europa, in America Latina, due paesi africani, anche negli Stati uniti. E’ un mondo culturale, è un’identità culturale. Naturalmente questo determina una forma di pensare e anche una forma di capire il mondo.
Ci sono tempi diversi nell’affrontare con la scrittura i temi dell’attualità, come se ci fossero tempi diversi di digestione delle cose. Sui temi ambientalisti è trascorso meno tempo dal tempo della lotta a quello della narrativa, l’esperienza nelle carceri cilene l’ha affrontata, nella Frontiera scomparsa, molto tempo dopo.
Quando ho parlato del problema ambientalista non ho estrapolato il problema ambientale da quello generale della mia preoccupazione di difesa della vita, perché non sono un ingenuo e so che il problema ambientale, della devastazione ecologica, del problema del miserabile stato in cui si trova una gran parte del mondo non è un problema prodotto dalla perversità dell’uomo, ma è un problema politico, che ha radici politiche e ha una soluzione politica. Ma si procura sempre una certa distanza per potere capire di questa cosa che non si sa. E’ la scrittura che ti dà risposta a tantissime domande ed è attraverso la scrittura che si arriva a una conclusione: questo è il fatto, questo è il mio ruolo nel mondo, questa è la mia prospettiva nel mondo e questa è la mia posizione di fronte al mondo
Ci vuole comunque una distanza tra quello che si è vissuto e sofferto e la narrazione?
La migliore definizione l’ha data Bertolt Brecht nella sua teoria del distanziamento: quando trascorre un certo tempo, si trasforma in una distanza che permette di essere spettatore della tua stessa vita e poter capirla in una forma migliore e poterla raccontare in una forma migliore. La situazione immediata è molto sporca, è importantissima una riflessione veloce che è una sorta di antiriflessione, una riflessione veloce che è il contrario della vera riflessione. Il tempo, non il tempo ossessivo, questo che ti dona la necessità di dire: Vedo il mio passato, vedo la mia vita con una saggezza, per usare la parola saggezza.
Sono molto contento di aver fatto il libro Raccontare, resistere con Bruno Arpaia, perché è un amico, un intellettuale di un enorme categoria, è anche un grande scrittore, e con Arpaia abbiamo parlato di una preoccupazione comune che è questa sorta di suicidio o di morte dell’informazione che dipende da una sorta di temporalità che è totalmente atemporale. E’ un’informazione che ti dà una serie di frazione informativa, di arrivare a un’opinione che non permette di concludere, a un punto di vista, che è fondamentale.
Noan Chomski, in un libro importante, parla di questa moderna forma di schiavitù, una moderna forma di dire all’uomo: Tu non hai il diritto di sapere, tu hai solamente un diritto parziale di sapere certe particolarità e non il tutto. E’ solamente il Potere che ha la totalità dell’informazione. E naturalmente questo si riflette anche in tutta la mia letteratura, si riflette nel resistere a questa nuova forma di dominazione mentale e intellettuale. Naturalmente si può pensare che non è il ruolo dello scrittore arrivare a trasformarsi in un intellettuale della comunicazione, ma è il tempo che viviamo, l’epoca che mi è toccato vivere, un’epoca di emergenza costante. Sono convinto che lo scrittore debba essere un partecipante attivo di quest’emergenza costante denunciando quest’emergenza per arrivare un domani, nel futuro, a una sorta di normalità. Deve contrastare la falsa interpretazione che gli dà il sistema. L’intellettuale deve dire che è arrivato a un’opinione su quello che succede. Il nostro tempo è una società di controinformazione costante. L’unica informazione è quella che arriva dalla controinformazione. Per questo Internet è indispensabile.
In questo come agiscono le dittature?
La prima idea della dittatura è sempre che il presente è eterno perché non è possibile cambiare, perché è intoccabile, è questa perversa forma di eternità e naturalmente il risultato ideologico è l’immobilità, la rassegnazione, il fatalismo, il pensare che le cose sono così e non cambiano. Il recupero del vero senso del tempo è un’attitudine rivoluzionaria. Quest’eternità non esiste più, il tempo ha un altro valore e anche l’uomo è il solo responsabile di questa misura del tempo.
Sempre nel valutare le dittature lei dice: “Le dittature ci tolgono la possibilità di passare da un io a un noi. Oggi che non c’è più il noi di carattere ideologico come possiamo arrivare dall’io al noi? Qual è il noi a cui far riferimento perché la persona non sia chiusa in se stessa?
Io credo che abbiamo un noi. E’ un noi che si sostiene in una sorta di incertezza. Dopo la caduta del muro di Berlino, dopo questo decreto della morte della Storia che ha fatto Fukuyama, dopo la morte delle ideologie di cui parla qualcuno, l’uomo è pressato da un’enorme incertezza, ma quest’incertezza è anche un fattore di unione, perché in questa incertezza si arriva alla necessità di parlare, di chiederci cosa facciamo, cosa facciamo per capire la realtà. E io vedo con profondo ottimismo che si arriva di nuovo alla formulazione di un noi, questa bellissima manifestazione di esistenza collettiva, sostenuta da un io fortissimo: io penso, io attuo. Ma non solo. Attuiamo noi, che si vede nel movimento antiglobalizzazione, che si vede nel Forum di in Porto Alegre, che si vede nell’esistenza di questo movimento universale che non è un partito politico, che non è un sindacato, che non è un’organizzazione classica di sinistra, che è Attack.
C’era un biglietto che le aveva dato suo nonno per andare “da nessuna parte”. E il film a cui lei ha lavorato si chiama Nowhere. Che cos’è questo concetto di “nessuna parte” e di scomparsa delle frontiere in senso positivo e negativo?
E’ una metafora perché nessun posto sono tutti i posti del mondo. E’ il movimento sempre circolare, quando si comincia ad andare si arriva sempre nello stesso punto. E per me è la vecchia storia del viaggio di Ulisse che racconta Omero nell’Odissea, ma l’importanza di questo viaggio verso nessun posto è il movimento, il fatto di andare, di andare, di andare, è il movimento che simboleggia l’azione, la non passività, l’inquietudine, la curiosità, tutto questo è simboleggiato dall’andare da nessun posto a nessun posto.