Masih, la voce alta e libera delle donne iraniane
“Se torni in Iran perché ti senti in colpa ci avrai traditi. Quando grido so che la mia voce sarà portata ovunque da te, ma se tu vai in prigione io perdo la mia voce e tu ci avrai traditi.” La destinataria di questo e degli oltre 1500 messaggi che riceve ogni giorno è Masih Alinejad, giornalista e attivista iraniana nata nel 1976, in esilio dal 2009, prima in Inghilterra poi negli Usa. Be my voice è il titolo del film documentario che la regista iraniana-svedese Nahid Persson ha realizzato sulla sua storia e la sua attività quotidiana di lotta e informazione.
Masih ha messo da sempre al centro della sua vita la lotta all’obbligo del hijab imposto dalla Repubblica islamica ed è stata una figura fondamentale per il movimento che ha portato nelle piazze iraniane milioni di donne e di uomini a sfidare con la disobbedienza civile il regime degli ayatollah. Nata in un piccolo villaggio agricolo del nord dell’Iran, racconta di essere stata “la prima ragazza a essere espulsa da scuola, la prima donna a restare incinta prima del matrimonio, la prima a divorziare, la prima a finire in prigione, la prima a diventare giornalista parlamentare”, subito esclusa per aver chiesto e svelato le buste paga dei deputati.
“Mi sento in colpa se parlo di Poya e non di Farzad o Majid o Ameneh o Nikita. Questi non sono solo numeri. Odio quando le persone si trasformano in un numero.” E per questo Masih, che con il suo blog e una sua trasmissione televisiva raggiunge oltre sette milioni di follower, ha insegnato a usare le fotocamere dei cellulari come arma di documentazione e di denuncia dei soprusi delle Guardie rivoluzionarie del regime. Ben 29 donne sono state condannate fino a dieci-quindici anni di carcere per averle inviato dei video senza indossare il loro hijab, ma lei continua ad essere punto di riferimento per chi vuol fare sentire la propria voce. Da quindici anni non vede la propria famiglia, che subisce la persecuzione degli ayatollah: le sue sorelle sono state costrette a ripudiarla pubblicamente, suo fratello, che l’ha sostenuta, è stato condannato a otto anni di carcere. La Repubblica islamica ha posto una taglia sulla sua vita, ha emesso una fatwa come quella che ha colpito lo scrittore Salman Rushdie e di recente l’Fbi ha sventato due attentati preparati contro di lei negli Stati uniti. Ora vive col marito in una località segreta.
Nel film vediamo i momenti di gioia infinita e di infinita disperazione, l’energia inarrestabile di passione, di vita, di amore e di straordinaria empatia con le donne del suo Paese, cui è proibito, oltre a mostrare i capelli, cantare, ballare, andare allo stadio e tanto altro. “Non ho mai detto di voler cambiare il mondo intero, voglio solo cambiare il mondo intorno a me”, ma quello intorno a lei è davvero un mondo senza confini. Be my voice mostra immagini riprese dai cellulari di condannati a morte o delle loro madri e di testimoni di impiccagioni pubbliche, di fustigazioni e di manifestazioni finite in tragedia. Non esistono servizi di tg o articoli che riescano a coinvolgere quanto un film documentario come questo, che ci fa toccare con mano la realtà dell’Iran e il coraggio sovrumano di donne come Masih e di tutte quelle che affidano a lei la loro voce. Come gridano sulle piazze le donne iraniane “se alziamo la voce insieme, se teniamo duro insieme, se ci teniamo tutte per mano saremo libere dall’oppressione”.
Il film, messo in onda su Mymovies per la Festa della donna, è anche, a noleggio, sulle piattaforme Amazon Prime, Chili e Now.
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