Paolo Fresu: Un soffio di universo che mi appaga

“Ricordo come fosse ieri la prima volta che ho percepito la pregnanza del respiro. Praticavo la tromba dall’età di dieci anni e la musica albergava nella nostra casa.
Seppure la mia fosse un’umile famiglia di pastori e di contadini i miei amavano ascoltarla e il primo ricordo dei suoni è quello di un bimbo di cinque anni che strimpellava l’armonica a bocca nella cantina di casa, con tutti che ballavano e con un tappeto di stelle filanti e coriandoli.
Era evidentemente carnevale e gli amici di mio padre e mia madre erano tornati presto dalle campagne per festeggiare, mettendosi il vestito buono.”

Inizia così il capitolo de Il senso del respiro, dal titolo “Un soffio di universo che mi appaga”, scritto da uno dei più noti jazzisti italiani, Paolo Fresu. Una delle particolarità del libro è quella di raccogliere esperienze dirette, di cui gli autori stessi non avevano ancora raccontato in modo così esteso. La prima, subito dopo l’analisi e la storia della parola Respiro di Giorgio Moretti, è proprio quella di Fresu. Versatile non solo nel comporre ed eseguire la sua musica, Fresu è direttore artistico, didatta, autore di numerosi libri e ha ricevuto due lauree honoris causa, una dall’Università di Milano Bicocca in Psicologia dei processi sociali, decisionali e dei comportamenti economici, l’altra dalla Berklee School di Boston. Ha inciso oltre quattrocentocinquanta dischi e nel 2010 ha fondato un’etichetta discografica, la Tǔk Music. Per saperne di più basta consultare il suo ricco official site.
Nel suo capitolo ricorda come “una mattina di un maggio sardo, soffiai dentro la Selmer e mi sentii vibrare all’unisono. Fu un cataclisma emotivo ed ebbi un sussulto che mai dimenticherò. L’impressione era che quel suono fosse uscito da me con un’anima sconosciuta e avesse riempito la mia vita grazie a un soffio vitale. E’ in quel momento – scrive – che la mia vita è cambiata. E’ quel soffio che mi ha dato la forza di cercare altri soffi e respiri che mai bastano, e che da quant’anni mi istigano ogni giorno verso una ricerca del conosciuto e dello sconosciuto”.
Lasciandosi trasportare dall’onda dei ricordi collegati al respiro, Paolo Fresu rievoca un concerto ascoltato a New Delhi nel 1984: “Il flautista indiano quella sera suonò per mezz’ora la stessa nota con l’ausilio della respirazione circolare. Una nota infinita che raccontava il mondo e che era sempre diversa grazie al respiro. Non ero preparato a quello tsunami emotivo e pertanto mi addormentai per svegliarmi sulla stessa nota infinita che ricorderò per sempre.”
C’è molto altro in questa sua testimonianza originale, che si conclude con un vero e proprio atto di fede nel respiro: “Col passare degli anni mi rendo conto sempre di più che respirare la musica mi ha reso un uomo migliore e che mai e poi mai tradirei un patto con un amico caro”.

    (Le fotografie sono di Elisabetta Angeli, che ringraziamo)

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Città Isaura

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